In caso di fallimento del datore di lavoro intervenuto nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, il lavoratore può proseguire davanti al giudice del lavoro solo le azioni tendenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento o alla reintegrazione nel posto di lavoro, e non anche quelle aventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, che sono attratte dalla competenza del giudice fallimentare.
Lo ha affermato la Cassazione con sentenza 22 dicembre 2011, n. 28211, che ribadisce l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità formatosi in merito all’art. 24, co. 1, della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e successive modifiche ed integrazioni), nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 21, D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile “ratione temporis” alla fattispecie esaminata.
Nel caso di specie, un dirigente di una società aveva chiesto l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento nei confronti dell’imprenditore fallito in corso di giudizio.
La Cassazione ha ritenuto che resta ferma la competenza del giudice del lavoro a conoscere le controversie non aventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, ma finalizzate a tutelare interessi ulteriori del lavoratore di natura non patrimoniale, quali la tutela della sua posizione all’interno dell’impresa fallita, dove sia richiesta la reintegrazione, per l’eventualità della ripresa dell’attività lavorativa in caso di esercizio provvisorio, di cessione dell’azienda o di concordato fallimentare, oppure dei diritti previdenziali, risultando tali interessi sottratti alle esigenze della par condicio creditorum (parità di trattamento dei creditori: art. 2741, co. 1, c.c.[2]) e direttamente connessi alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento o alla reintegrazione nel posto di lavoro.