Per gli americani the best è il “number one”, e basta. Ce n’è uno e uno soltanto. Tutti gli altri seguono: possono essere
“good” e anche “very good”, ma non the best. Non è allora un ossimoro unire best,
La locuzione second best non vuole rinviare a un “best secondo”, a un “ottimo di secondo grado”, “più piccolo” rispetto
a un fantomatico “best of best”, ma intende segnalare che esistono tanti best quante sono le diverse situazioni in riferimento alle quali viene determinato. Per ciascuna il best è unico. Second best denota quindi “l’optimum” per una situazione che viene definita “seconda” rispetto a una implicitamente considerata “prima”. Il second best è dunque il meglio
nella “seconda” circostanza.
Quali sono allora i criteri per distinguere la prima dalla seconda circostanza? É prima la situazione teorica, nella quale
tutto è possibile. In tal caso, la scienza economica afferma che the best è raggiunto quando sono soddisfatte le tre condizioni stabilite da Pareto; semplificando, quando beni e servizi sono venduti al prezzo minimo in tutti i settori.
La seconda situazione, quella il cui ottimo è detto second, è quella quotidiana: cioè una realtà nella quale non tutto ciò
che si vuole si avvera. In tali circostanze, le tre condizioni enunciate da Pareto non possono essere soddisfatte sempre e
dovunque. Qual è allora il meglio in tali casi? Avvicinarsi quanto più possibile all’ottimo paretiano, vale a dire creare le
condizioni perché il prezzo di vendita sia minimo in quanti più settori possibile? No, il second best – ciò che è meglio
nella situazione in cui i desideri hanno il morso – non solo non è un “first best” in versione ridotta, ma è un best che può
avere caratteristiche anche diametralmente opposte.
Per esempio, la teoria del libero scambio vuole che la riduzione delle barriere commerciali comporti in ogni caso un
miglioramento del benessere sociale, ossia un avvicinamento all’optimum; e ciò, nonostante che la loro eliminazione
totale – che rappresenta l’ottimo paretiano – sia un’opzione valida soltanto sulla carta.
Questa asserzione, a prima vista inconfutabile, potrebbe però dimostrarsi drammaticamente falsa nel caso in cui la parziale liberalizzazione riducesse di tanto il commercio con i Paesi protezionisti da diminuire il benessere sociale del globo. Se ciò accadesse, “l’optimum” verrebbe piuttosto raggiunto mantenendo invariate le regolamentazioni commerciali o
addirittura introducendo forme di protezionismo che convogliassero gli scambi nel senso di aumentare il benessere globale. Che non significa aumentare gli scambi, ma migliorarne la qualità. E in ciò consisterebbe il second best.